Sono fragile e non mi vergogno

Sono fragile e non mi vergogno

Sono fragile e non mi vergogno 763 1024 Vincenzo Leonardo Manuli

Rifletto alla luce del tempo pasquale pensando a questo tempo di Covid19, di pandemia, che è per tutti un passaggio inedito, dove è passato più di un anno, a volte viviamo senza scorgere una via d’uscita, e la soluzione ancora non si conosce in mezzo a naviganti di un mare aperto e in tempesta. Non può sfuggire che questo è il tempo della fragilità, della vulnerabilità, come quella del giglio, di un semplice fiore, del bambino che grida perché ha fame, dell’anziano che non riesce ad alzarsi, del malato che non trova attenzione, del carcerato che attende un nuovo respiro, dell’innocente che attende giustizia, del padre e della madre che non sanno come governare l’economia della loro casa.

Ce ne dimentichiamo forse per negare la realtà, ma sappiamo di essere fragili, aggredibili da tante forze mortifere, non nel senso che siamo minacciati da ogni cosa, ma che oltre  alle calamità naturali che abitano il nostro pianeta (terremoti, eruzioni vulcaniche, epidemie…), siamo consapevoli di essere abitati anche da pulsioni di male, coscienti e non coscienti, di essere capaci di procurare sofferenza, e qui è messa in gioco la nostra responsabilità.

Ho pensato e sto pregando per i morti di Covid 19, per i malati, per i medici, per gli infermieri, per le famiglie che hanno affrontato e stanno combattendo contro questo terribile mostro, e penso anche ai pastori che hanno il compito di accompagnare i sofferenti e di prendersi cura di loro, a coloro che ai dubbi di fede, alla sofferenza, alla malattia e incontro vivono la rassegnazione. Dio non ha bisogno delle nostre difese o logiche giustificatrici, la morte non viene da Lui, ma dalla nostra condizione umana terrestre, finita, fragile, perché si nasce per morire, nel ciclo della vita.

Come valutiamo questo tempo? Ci domanderebbe Gesù. Osserviamo, ascoltiamo, quello che sta accadendo intorno a noi, e noto però che manca l’attenzione alla fragilità, si ha paura del fragile, della sofferenza, di chi cerca aiuto, di chi ha fallito, di chi è stato tradito negli affetti, di chi ha scommesso in una nuova avventura. Esiste un ministero per le fragilità? Esiste un assessorato alle fragilità? Esiste una pastorale della fragilità? Esiste una materia accademica che si chiami fragilità? Esiste una laurea o un dottorato alla fragilità?

Viviamo isolati, rinchiusi, pensiamo di bastare a noi stessi, e non udiamo il pianto del vicino, quello che sta sul mio stesso pianerottolo. Invece di andare alla ricerca dell’essenziale, si lotta ancora per l’apparenza, invece di vivere la vita nei giorni, quell’essenziale che ci basta, ma si vogliono aggiungere giorni alla vita, perdendo l’istante. C’è chi ha perso un lavoro, c’è chi voleva mettere su famiglia, c’è chi godeva della chiacchierata con un amico, del caffè al bar, della giocata a carte con la combriccola degli amici, c’è chi ha rinunciato ad una vacanza di riposo, ma la realtà ha mostrato il suo lato duro, non congeniale per chi è in basso, il cui grido non giunge a coloro che governano. 

Va avanti chi riesce a ritagliarsi uno spazio in mezzo a furbetti e raccomandati, a chi fa la voce del forte e si rende complice di inganni e raggiri. Non c’è spazio per la fragilità, per la sofferenza, di chi ha le sue lentezze, dei suoi tempi, mentre cresce l’arroganza e l’egocentrismo. Sarebbe bello girare pagina, riprendere la creatività, obbedendo  alla fragilità, perché fragile è scartato ma è bello, come quel fiore sul quale l’ape si posa sui suoi petali, rispettando la sorgente del suo nutrimento. 

E la fede che posto si ritaglia in tutto questo, senza cedere alla disperazione? Non mi piace un parlare cattolico, troppo accademico, lontano dalla realtà, quando sarebbe più opportuno tacere, rispettare il mistero della sofferenza, della fragilità. Sappiamo di non poter offrire soluzioni o risposte, si è davanti all’enigma, al mistero, non che evita le domande, ma mi ritorna, nel contemplare la croce, quel grido di Gesù: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,33; Mt 27,46; Sal 22,2). 

In quel grido si riconosce ogni uomo e ogni donna che cercano aiuto, ma può farlo accettando la condizione umana di creatura, chiedendo di essere sollevati dal dolore, cercando di cogliere nella propria sofferenza un luogo in cui Dio è accanto più che mai, perché Cristo stesso si è identificato con il sofferente, che sia uno che soffre per fame, per malattia, per ingiustizia, o per qualsiasi altro bisogno che patisce. 

In questa mia riflessione, che cade nel tempo pasquale, pasqua di risurrezione, di rinascita, di novità liberante, non vorrei divagare, ma continuo a pensare alla fragilità, come quella di chi non corre, di chi apprezza ogni momento e si gode l’istante, di chi non appare e non sgomita per sedersi in posti importanti, di chi non fa della solitudine una disperazione, di chi non smette di sperare in un’alba nuova, di chi non teme di arrivare ultimo. 

Diciamoci la verità, abbiamo paura della fragilità, per questo avremmo bisogno di umanizzare la fragilità, non del debole che ha bisogno del forte, ma della solidarietà, della cura, della prossimità, per ritrovare insieme la fiducia e la speranza, che camminando insieme, sulla via della fraternità, scopriremo una bellezza, che è dentro la storia che viviamo e che si vive una sola volta.

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