Per capire l’anima della Calabria (o delle Calabrie) non basta viverci e comprenderne la storia, la lingua, gli usi e le tradizioni. Non è necessario essere a conoscenza dell’atavico fatalismo meridionale e le contraddizioni secolari (Cf. G. M. Bregantini, Non possiamo tacere, Milano 2011). Nemmeno è sufficiente la consapevolezza di essere immersi nella ripetitività di riti e di un’esistenza che segue sempre lo stesso circolo. Il tragico dell’esistenza che il popolo calabrese ha ereditato dalla cultura greca (la rassegnazione) è altresì accentuato da vicende storiche che fanno parte della sua fenomenologia geoantropica e culturale. Per essere più comprensibili, la trama quotidiana è vissuta come il “cane che si morde la coda” e gira continuamente su stesso, una sorta di circolo eterno, come l’eterno ritorno del filosofo Nietzche.
Confido che in questi anni in me è aumentata la “sensibilità antropologica”, nel bisogno di cogliere quanto la vita in Calabria possa essere impastata di immobilismo e di tragedia. Il calabrese è un uomo dal doppio volto, di carattere, fiero, orgoglioso, generoso, ospitale, ma anche dannatamente violento, vendicativo, pauroso, diffidente, chiuso che ha una scarsa indignazione sui mali della Calabria (L. Repaci, Calabria grande e amara, Milano 1964). Per capire la Calabria è fondamentale leggere «Magia e sud» (Ernesto De Martino, Milano 2013), dove sopravvivono nella cultura meridionale pratiche magiche come il malocchio, le fatture e altri riti magici presenti nel folklore della religiosità popolare, falò e santi mobili che fuggono e girano attorno alle chiese, come nel caso concreto delle feste popolari, delle processioni, dei pellegrinaggi e nei riti della settimana santa. Come mai nel XXI sec. di una modernità incompiuta che in Calabria è diventata postmodernità, ancora si conservano forme arcaiche e magiche in Calabria? Queste potevano essere comprensibili quando catastrofi naturali, terremoti, invasioni nemiche esorcizzavano nel ricorso a miti e cerimoniali magici raccordati con il culto cristiano. Spesso i tragici eventi scatenavano paura e angosce tali da far ricorso a riti e superstizioni. Che posto ha il cristianesimo in questo interminabile “circolo eterno”? La rivoluzione cristiana ha il suo nucleo generatore nella morte e risurrezione di Cristo e la nuova fede (diventata religione) inizia ad imporsi in tutto l’Impero Romano, approda in Calabria intorno al primo secolo. Che contributo ha dato in questo territorio? Non avrebbe dovuto portare una novità nella storia e dentro l’esistenza umana? Il nuovo “culto cristiano” ha soppresso alcuni elementi pagani, altri sono stati assorbiti, altri ancora convivono in maniera pacifica a danno dell’autenticità della religione (o della fede).
Chi ha visitato questa terra l’ha metaforicamente definita una “terra sismica”, di “contrasti”, che l’antropologo Vito Teti in un viaggio sul mondo tradizionale calabrese percepisce in un paesaggio che si sta spopolando «Terra inquieta» (Soveria Mannelli 2015). In mezzo a tanta violenza (terremoti, calamità naturali, ‘ndrangheta), la religiosità (la fede ?!?) ha indiscutibilmente un valore comunitario e sociale, un collante necessario per spezzare lo stress quotidiano dell’esistenza e le ristrettezze della vita. Spesso è vissuta quasi come un “rifugio”, una protezione psicologica nella ripetizione di forme arcaiche, miste a scongiuri, maledizioni con richiami al sacro. Se da un lato questo testimonia una “crisi di presenza sociale” del cristianesimo che ha taciuto sulle storture e sui mali sociali della Calabria, i riti magici – religiosi sono stati una necessità di riscatto contro i patimenti e le privazioni sociali. Questi ricorrono in occasione di festività locali, – adoperati in maniera massiccia e sistematica -, memoria tramandata nei secoli che assume una funzione catartica per proteggersi psicologicamente da potenze negative. In Calabria si convive con il mostro ideologico de “non cambierà mai niente”, un rituale tale da definire il calabrese melanconico, triste, lamentoso, lento e ozioso. Evitando di fare la lunga lista delle cose che non funzionano, – voglio chiarire che non sto parlando male della Calabria ma del “male” della Calabria – le tentazioni frequenti di fronte alle problematiche è la fuga delle responsabilità. Gli antropologi e i sociologi definiscono questo atteggiamento non come un valore, ma il perdurare dell’atavico fatalismo del destino ineluttabile, l’idea immutabile di far parte di un determinismo storico e culturale dove predomina l’avverbio “ormai!”, di chi gli sfugge di mano la propria vita e si lascia dominare dagli eventi e dalle situazioni. Questo affresco della Calabria non esaustivo, è raccontato dall’antropologo Teti in un altro suo saggio dove descrive una serie di pregiudizi che contornano il calabrese in «Maledetto sud» (Torino 2013), considerata una “razza inferiore che ha paura di fare i conti con la propria ombra e veste l’abito della retorica”. Teti continua: “la salvezza del calabrese non è rinchiudersi, ma se vuole fare i conti con la storia bisogna capire, comprenderci gli uni e gli altri e partire dagli imperativi”.
In conclusione, una sindrome sembra patire il calabrese, quella di “Caifa” (per chi non ha dimestichezza con i vangeli è il sommo sacerdote del sinedrio che condannò a morte Gesù Cristo). “Caifa” ha paura del “nuovo”, del giovane che potrebbe togliere potere alla sua casta, atteggiamento comunissimo in politica, nell’economia, nella chiesa, allora si continua con quell’adagio mortifero: “Si è sempre fatto così!”.
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