Parlare del dolore, della sofferenza, della malattia, creano una profonda inquietudine personale e sociale, spesso non visti come periferie e luoghi di umanità e di umanizzazione non fanno parte di una programmazione quanto dell’imprevisto e dell’inedito accadimento dell’esistenza. Come può essere una periferia? Che cos’è una periferia? Non s’intende idealizzarla, certo è un luogo di relazione, di convivenza con i limiti e le imperfezioni della vita. Da quale prospettiva guardarle per entrarvi dentro con rispetto e partecipazione?
Le periferie non si possono catalogare, individuare sì, pena una specializzazione in termini di una istituzionalizzazione che si può strumentalizzare. La soglia di porta di casa del vicino, sullo stesso pianerottolo, ecco la periferia e il segno che dischiudono mondi sconosciuti e inenarrabili di sofferenze e di dolore. Periferia è il luogo dell’indifferenza, non è solo quella morale, sociale e culturale, ma di più, è qualcosa segnato da ferite e cicatrici pieni di luce.
Posso farti vedere una cosa? Guarda la mia ferita, guarda la mia cicatrice, ascolta la mia storia di solitudine, di separazione dal mondo e dell’umanità, ascolta non il vittimismo ma il bisogno di condividere, ascolta i limiti e le fragilità.
La vulnerabilità, il dolore, possono rappresentare e mostrare la tenacia del riscatto della vita, non un’esaltazione, nemmeno una lamentela. L’apostolo Paolo a chi lo prendeva in giro a proposito della sua debolezza, a chi approfittava delle sue sofferenze, rispose, è quando sono debole che sono forte, passando dall’inutilità della malattia alla grazia del dolore per trovare le perle nel fango.
La periferia mette a dura prova, è una tentazione per chi la vive e per chi non si sporca le mani, per chi evita e prende il largo, inconsapevole che presto o tardi riguarda tutti. La periferia non è un luogo ricercato e abitabile, nel trend di chi è disposto a ricercare l’ideale della perfezione. C’è una esaltazione della perfezione che sottovaluta la realtà della vulnerabilità, ed è qui la salvezza, cioè il salvarsi da un’idea che la bellezza possa risiedere non nel limite. La ricerca della perfezione cade nell’astrattezza e nell’alienazione della realtà, che emargina la fragilità e la debolezza. La forza, in termini cristiani è la grazia, l’iniziativa provvidenziale divina, la dimora, laddove non immaginiamo, ad esempio nel fiore, nella piccolezza del seme, in un alito di vento, nel vagito di un bambino, ecco la grazia di cui parlava Paolo. Dovremmo ripetere una preghiera: “salvaci dalla perfezione!”.
In questo tempo, di malattia, di dolore, mi racconto, dalla mia periferia, un’offerta, per vedere il tutto in una nuova luce, una eucaristia non rituale ed esteriore, probabilmente un’opportunità a saperne trarre il bene, ricordando la frase di un scrittore che mi ha attirato: “la salvezza non sta nei nostri ideali astratti, ma abita nelle nostre splendide imperfezioni”.
La periferia si pone anche nell’ottica della giustizia, un altro argomento sfidante che trova muri e barriere nella dilatazione del cuore umano al legame che unisce ogni uomo e ogni donna nella partecipazione alla sofferenza e al dolore, del grido contro la morte del prossimo se è assente lo sguardo di compassione verso ogni periferia.
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