Archimede chiedeva un punto di appoggio, senza Cristo noi che faremo? Dove andremo?
Questa riflessione parte dal vangelo, perché la teologia si fonda sulla Parola di Dio, ma quello che dirò non è nulla di nuovo sotto il sole, direbbe il sapiente Qohèlet. L’evangelo di Matteo ci regala l’esclusiva parabola delle dieci vergini che attendono lo Sposo (cf. Mt 25,1-13), di cui cinque sono stolte e cinque sagge. Dormono tutte, sono stanche, ma nell’attesa e di sorpresa arriva lo Sposo: le stolte fanno una scoperta amara, si accorgono che l’olio per tenere vive le lampade scarseggia e si trovano senza, e non hanno altra alternativa che chiedere aiuto alle sagge. La risposta delle vergini sagge è sconcertante: non basterà né per loro è né per le stolte se dovessero condividerlo. Pensavo: manca la cortesia, perché le sagge non vogliono saperlo di prestarlo, è uno scandalo! L’olio nella simbologia orientale rappresenta le buone opere, e davanti allo Sposo non ci si può presentare con quello degli altri, è chiaro il messaggio, sulla responsabilità. Non ci si può presentare al Signore con le opere degli altri. Quale è la testimonianza del cristiano? Ci si sente responsabili davanti a Dio e agli altri? Cos’è questo olio che debbiamo portare nella vita di tutti i giorni? Possiamo impegnarci di più?
Fede e cultura
Quello che è rimasto della cultura cristiana (sic!) oramai sono solo macerie: secolarizzazione, indifferenza, pluralismo, postmodernità, hanno spazzato secoli e secoli di storia, tuttavia questi non vanno visti come nemici ma l’opportunità per rivalutare il cristianesimo e riproporre la novità del vangelo, in una realtà che vive etsi Deus non daretur come se Dio non esistesse affermava il teologo luterano Dietrich Bonhoeffer. Scriveva il card. Joseph Ratzinger che si ritornerà a quel piccolo gregge per fare esperienza del vangelo e divenire lievito nella società, e soprattutto ritornare all’essenziale. Il cristianesimo ha una forza, la tradizione la ricchezza spirituale e dottrinale accumulata nei secoli, un patrimonio da annunciare in formule brevi della fede che creano un’apertura al mistero del trascendente direbbe Karl Rahner.
Fede santi miracoli magia
Proprio a partire dalle formule brevi di fede, e non una valanga di parole, norme, riti, dottrine, usi e costumi (Dio ai confini, p. 233) scrive il teologo Francesco Cosentino che la gente non capisce più. La gente chiede riti, che interpreta in forma magica, chiede miracoli, invoca segni, ma se non c’è un annuncio chiaro e concreto non scopre il significato esistenziale della fede. Occorre liberare il cristianesimo e non imprigionarlo in schemi che non parlano al cuore e creare un’alleanza tra fede e vita quotidiana. Non è vero che spesso i sacerdoti sono visti come santoni o guaritori che hanno la risposta pronta ad ogni domanda? Quale cristianesimo immaginiamo o quale visione futura abbiamo?
La fede non si trasmette con un imparaticcio di precetti umani, ma con un cuore e una vita autentica e concreta che soli possono dare senso alle tante osservanze che in seguito ci sono richieste nella quotidianità del vivere comunitario. Forse il nervo scoperto e la situazione in cui ci troviamo oggi è evidente, il cristiano non sente quella responsabilità di rendere presente e vivo il vangelo, vivendo di fatto una fede immobile, in cui non si sente toccato. Il teologo L. M. Epicoco in un commento al vangelo afferma: Si può parlare di regno di Dio solo se si “esce” e “si va incontro” allo Sposo. Non esiste un’esperienza di fede che coincida con un movimento statico. La vera fede è uscire dalla solitudine del nostro io per andare incontro a ciò che può compiere il nostro vero io. Quindi tutti quelli che usano la fede e la religione per stare semplicemente bene con se stessi sono automaticamente tagliati fuori da questa pagina del Vangelo. La vita spirituale non è una vaga ricerca di benessere interiore, ma è andare incontro a ciò che può realmente compierci. Questa parabola delle dieci vergini offre una lezione, la fede non è la ricerca di soddisfazioni personali, di benessere, di delega agli altri, ai santi o santoni di turno per risolvere i problemi, quasi come se si avesse la necessità di un Dio tappabuchi espressione coniata dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer, laddove non arriva l’uomo, ci pensa Dio, o i santi o il guru della situazione, con il risultato mortifero di una fede a convenienza, consumistica e avente come obiettivo l’utilità e il profitto personale in sostanza un do ut des.
Non illudiamoci quando la gente ci chiede riti, è un buon punto di partenza, ma senza un cammino, senza generare processi per ritornare poi nei ritmi della vita e nell’oceano del quotidiano per acquietare la coscienza, abbiamo offerto riti interpretati in forma magica. E se tutto questo ripropone la centralità della preghiera? Penso alla solitudine del cristianesimo, il cristiano è solo, e la sua unicità può divenire una dimensione essenziale e luogo di preghiera. Così scrive Enzo Bianchi, fondatore della Comunità ecumenica di Bose: Per noi umani la solitudine può essere buona o cattiva ma non possiamo dimenticare che essa è una dimensione essenziale della nostra vita, perché non è solo la verità più profonda che incontreremo nella morte ma resta una dimensione da cercare, da vivere per essere pienamente noi stessi nella libertà, per potere, in assenza di voci umane, ascoltare la voce di Dio che parla a ciascuno di noi nel cuore. Gesù nella solitudine è un’icona che dovremmo tenere più presente, proprio perché, nella sua umanità piena e assoluta, assunta nell’incarnazione, ha cercato nella solitudine la volontà del Padre, ha sentito e vissuto la propria vocazione messianica in un modo altro rispetto all’attesa dominante di un Messia potente e dominatore; ha lottato nella solitudine contro le tentazioni, vincendo Satana grazie all’unico sostegno della Parola di Dio, custodita, interpretata e pregata nel cuore. Nella solitudine Gesù si è preparato ad acconsentire alla logica della croce, al perdono dei suoi nemici, all’amare i suoi discepoli fino alla fine (cf. Gv 13,1). Ha vissuto almeno trent’anni di solitudine prima della sua missione pubblica, dunque la solitudine non è stata per lui luogo di assenza ma di presenza di Dio. E la vera solitudine, per essere luogo di tale presenza, deve essere piena di preghiera.
Questa riflessione mi suggerisce che il tempo che viviamo potrebbe sembrare insignificante, vuoto, arido, invece è kairòs,tempo di preghiera e di silenzio, nella quale ci si prende cura della fragilità dell’uomo, delle sue paure e delle sue speranze, nella quale si libera la forza del cristianesimo, che non s’impone, che accompagna dentro la vita gli uomini nella storia, ecco a cosa è chiamato il cristiano, la fede come coraggio come la chiamava Karl Rahner, in cui irrompe l’annuncio della presenza del Dio di Gesù Cristo come sorpresa nello scorrere della vita e inaugura orizzonti di senso, si innesta nelle domande e nei travagli concreti dell’esistenza. Ne deriva che la fede cristiana si presenta in modo essenziale, mai separata dall’umano ma, anzi, come cura dell’umano e suo compimento dell’amore (F. Cosentino, Dio ai confini, p. 240).
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