Se metti la mano in quelle feritoie delle mura scalcinate, senti ancora l’eco della gente che vi abitava, ma adesso sono un cumulo di macerie. Si passeggia nelle vie vuote, spunta qualche ragazzo, e pensi c’era una volta che qualche vecchio baluardo ti racconta, dal volto rugoso e dalla schiena piegata dalla fatica e dagli anni. Le nuvole si addensano nel cielo, battagliano con il sole, settembre è il mese della vendemmia, i ragazzi che riprendono ad andare a scuola, gli alberi si spogliano per colorarsi di nuovo a primavera, le finestre sono chiuse per gli spifferi miti, i lampioni illuminano presto la sera, e le giornate si fanno più corte. Qualcuno guarda scorci di passato, passa e ripassa le fotografie, e ripara qualche feritoia.
Il cielo da questi parti è bello d’estate ed è bello anche d’inverno. In estate sono diversi i paesi e le città che rivivono l’arrivo degli emigranti, ci si attarda in compagnia, e davanti all’uscio, abbracci e saluti che ricordano le radici mai dimenticate per trascorrere un tempo di vacanza, per incontrare i familiari e gli amici, e ravvivare nostalgie e ricordi. La Calabria purtroppo da decenni attraversa il dramma dello spopolamento, a risentirne sono piccoli paesi, i borghi, che riprendono vita solo nel tempo estivo. Si affollano in estate i nostri paesi, purtroppo per brevi e occasionali incontri, tra ritorni e ripartenze, ripercorrendo quelle drammatiche vie di fuga per assicurarsi un futuro più dignitoso, non senza il cuore che si spacca, perché chi parte lascia sempre un pezzo di sé, e chi resta rimane solo e a metà.
Profumi locali, ricette della nonna, passeggiate tra il mare e la montagna, sono i divertimenti estivi, nelle serate che si fa tardi, di lunghe chiacchierate tra qualche bicchiere di vino e racconti che rievocano tempi che non ritornano più.
Le feste patronali sono una occasione per fermarsi un po’ di più, poi si ritorna al tragico quotidiano, quella routine di paesi e di borghi che progressivamente stanno morendo, oramai divenuti luoghi dormitori, per i pochi anziani, qualche ragazzo e ragazza, la restanza di poche famiglie, coraggiose e obbligate a tenere viva la comunità. La vita qui è più calma, senza scossoni, ma nel corso degli anni, gli amministratori locali, senza progettazione e senza interesse, collusi con altri obiettivi e frequentazioni che nulla hanno a che fare con il bene comune, non sono riusciti a rimettere in sesto questi piccoli paesi. Dove è stata la politica locale e regionale? La mancanza di risorse umane e materiali oggi si fa sentire di più, hanno portato ad un impoverimento di umanità e sotto il profilo urbano, si vedono case abbandonate, edifici fatiscenti e decrepiti, strade sgretolate, marciapiedi ricoperti di erbacce, tutto sotto l’incuria di quel demòne mortifero che si chiama distruzione. Rimangono in piedi pochi presìdi, oltre al municipio che dirige gli affari comunali, qualche negozio alimentare, l’ufficio postale a giorni alternati, il tabacchino, forse qualche piccolo bar, e la chiesa, il cui campanile nei melodici rintocchi richiamano alla messa quotidiana che ridà una leggera vitalità.
Come si può costruire la solidarietà? Le relazioni sono superficiali, non si condivide più niente, perché non ci sono aggregazioni e associazioni laiche per ritrovarsi e stare un po’ assieme.
Fa pensare la sorte di questi piccoli paesi, a osservarli impotenti davanti ad un esodo inarrestabile, che non fa rumore, lasciando vuoto e silenzio, dove tutto svanisce, e sopraggiunge la tristezza. Non ci sono scuole, asili nido, perché non ci sono alunni, preferiscono andare fuori, disgregando quel poco di tessuto sociale che resta. Non ci sono nascite, meglio rivolgersi ai paesi vicini per avere qualche servizio, e tutto si fa più vuoto, strade deserte, senza schiamazzi, paesi in agonia e chi rimane veglia miseramente come il volto rugoso dell’anziano che ti ripete: c’era una volta, un emblema di una umanità da museo.
Quali prospettive? Si vive o jornu o jornu, si dice da queste parti, e nel frattempo si fa strada la rassegnazione, tirati i remi in barca, per caso incontri qualche giovane dove non ti senti in grado di dare consigli se deve rimanere o andare via. La sfida sarebbe quella di non abbandonare un patrimonio di umanità, di valori culturali e religiosi, di tradizioni e di storia, ma questi sono i paesi dell’addio, dove tutto è svanito, purtroppo si è davanti alla descrizione inesorabile e realistica di un quadro che non lascia speranze.
Io da circa tre mesi sono parroco in una piccola comunità, di circa 490 abitanti, San Procopio, nella piana di Gioia Tauro, circondato dalla maestosità degli ulivi, in prossimità dell’Aspromonte. Non è la prima volta che svolgo il mio ministero in piccoli paesi, penso anche alla diocesi di Cassano all’Jonio, dove sono stato circa tre anni (Morano C., Mormanno, Saracena), paesi che resistono, inventano, contro una sorte che sembra già segnata. I problemi o le opportunità sono diversi, mancano analisi, proposte, perché in Calabria si vive alla giornata.
Qui ci conosciamo tutti, o quasi, la parrocchia si affaccia su una grande piazza, dove le case sono disposte senza una logica urbana, concentrate nel centro e sparse nell’abitato, la maggior parte disabitate e decadenti. Non c’è mai stato un piano regolatore. Qualche palazzina nuova ospita famiglie più giovani. Non ci sono semafori o strisce pedonali, solo una via è un po’ più trafficata per il passaggio di autoveicoli per arrivare al paese più vicino. La parrocchia svolge un ruolo importante, spirituale e di pronto soccorso sociale, di confronto con il territorio, che salva un piccolo pezzo di paese, di destini diversi e divergenti, di una vita dura e faticosa.
Quale comunità? In questo processo dinamico, di chi resta e di chi parte, non si può restare a guardare, si impongono scelte, nuove pratiche, e pensare creativamente, accompagnando i più fragili, inventare nuove possibilità di partecipazione. Ancora una volta, la religione e la fede cristiana, può essere decisiva in un contesto in mutamento e che deve arrestare una emorragia di umanità e di socialità.
Lascia una risposta