In Calabria esistono figure religiose di santità che danno speranza, nella tavolozza dei colori, lo Spirito Santo suscita umili e semplici testimoni innamorati di Gesù. Voglio brevemente riflettere sulla vita del prete e beato don Francesco Mottola, dopo aver letto un libro, Francesco Mottola, Teologia delle virtù e preghiera (2023). La vita del prete calabrese tropeano e’ un magistero di preghiera e di apostolato nel mondo, alla luce dell’amore di Cristo. La fondazione dell’Istituto degli Oblati del Sacro Cuore, famiglia formata da preti, da laici e laiche, è la cartina di tornasole della sua vita vissuta per Cristo, con Cristo e in Cristo, il suo programma di vita.
Don Francesco Mottola nacque a Tropea il 3 gennaio 1901, ordinato prete il 5 aprile 1924, il 29 giugno 1969 mori nella sua casa paterna.

Soffrire, tacere, godere, dimenticare, consigliava ai suoi figli e alle sue figlie spirituali, il suo motto, unito all’offerta – oblazione – cioè l’elemosina della propria vita, immolata sul sacrificio della croce per partecipare con Cristo alla redenzione del mondo.
Nel libro scritto a due mani, di don Suppa e don Ramondino, i due preti conterranei del Mottola, analizzano il ministero del prete tropeano, “carmelitano della strada”, “certosino della strada”. Don Suppa, nella prima parte scandaglia le virtù morali santificate dalle virtù teologali del Mottola, il centro è stata sempre l’Eucaristia: “ È Cristo che si dona, é Cristo che si immola, é Cristo che si fa pane di vita eterna” scrive Suppa facendo ermeneutica del ministero del Mottola (p. 43).

Don Ramondino indaga la teologia della preghiera e dell’apostolato del Mottola, il primato della preghiera nella vita del Beato, unito all’agire sociale, homo orans et homo faber, homo comprehensor (p. 141). Il Ramondino analizza diversi rimandi di autori spirituali a cui il Beato si ispira, Sant’Agostino, Sant’Ignazio di Loyola, ma anche testi di riferimento nel suo magistero spirituale e pastorale.
Preghiera, Eucaristia, Apostolato, Poveri e la sua sofferenza offerta per Cristo, non vissuta nel vittimismo, il Mottola ha preso il suo lettuccio ed ha evangelizzato, ha dato alla sua famiglia ciò di cui lui ha fatto esperienza, cioè Cristo: nemo dat quod non habet.

Fondo’ la Casa della Carità e volle che in questa dimora fosse sempre accesa una lampada accanto al Tabernacolo, cuore della vita cristiana e sacramento della presenza di Cristo. Da questa Casa si affacciava per contemplare l’orizzonte, sognava e immaginava quello che sarebbe stata la famiglia oblata e i poveri a cui si dedicava.
Il Beato, le sue opere, i suoi scritti, l’epistolario, come giustamente riportato nel libro, sono l’esempio di una “teologia in ginocchio e non da scrivania” (p. 37), in cui traspare un’anima in fermento, dalla preghiera all’apostolato attento ai problemi sociali nell’impegno della promozione umana, perché non può essere evangelizzazione senza attenzione alla condizione dell’uomo, composto di anima e di corpo.

Nella prefazione al testo, il fratello maggiore degli oblati, don Francesco Sicari, parla del Beato e della sua testimonianza orante, rimarcando il desiderio del Mottola, preghiera e offerta della propria vita.

Questa bella e umile figura incoraggia alla santità, una testimonianza semplice e profonda, una vita spesa e donata sull’altare del mondo coniugando preghiera e impegno sociale, sulla strada, “carmelitani della strada”.