Le persone vengono a raccontarmi le loro storie, le loro speranze, come quel bambino, in piazza, mi chiede di pregare per suo padre, arrestato e in carcere. Ero appena arrivato, ci penso sempre, ogni incontro, ogni sguardo, ogni storia, quanta ricchezza! Ho capito che noi siamo compagni di viaggio, a volte non possiamo cambiare le cose, ma possiamo metterci attenzione, amore. Quando incontro i ragazzi e le ragazze che frequentano il catechismo li provoco, gli faccio immaginare la vita di una città, stadio, teatro, discoteca, pub, cinema, centro commerciale. Loro sono abituati a vedere attorno ruderi, abbandoni, in mezzo a tanto silenzio sono sensibili ai rumori. Occorre non alimentare illusioni ma sogni, speranze, prospettive, un percorso che appare difficile.
Costruzioni precarie, incompiute, storie antiche sospese tra il restare o il fuggire, è quello che avviene in questo villaggio ai piedi dell’Aspromonte, dove è possibile scrivere una antropologia delle feritoie, dei ruderi, del provvisorio che sembra un definitivo continuo. C’è una non storia caratterizzata da un luogo chiuso, immobile, angusto, dove anche la fede appare un non senso, quei riti collettivi per esorcizzare il presente, contro la fatica e lo spaesamento dell’andare.
C’è tutto un microcosmo, che ritrova ogni tanto la solidarietà, come una notte, un incendio doloso che stava mietendo quattro vittime, il suono delle campane, la gente svegliata nel profondo della notte accorsa per aiutare gli sventurati, solo per un miracolo non ci sono stati morti, nell’attesa che i vigili del fuoco potessero salvare il salvabile. Tutto annerito, tutto distrutto, un martire, il cagnolino da guardia soffocato per il fumo dell’incendio.
Gli incendi sono spesso ricorrenti, di case, degli ulivi, mi è capitato in estate quando attraversavo la distesa di questi maestosi alberi, assistere ad ettari di terreno bruciati. In questo caso il fuoco non è un elemento di vita ma di distruzione. Quando sono arrivato senza bagagli e senza pregiudizi, mi sono accorto con il tempo che nell’aria a volte si respira un senso di disagio e di sconfitta. “Ogni tanto passate di qua, siamo abbandonati”, mi ha detto una signora, passando dal rione “u chjuppu”che nel microcosmo è ancora un altro microcosmo, periferia nella periferia. Non occorre dire parole ma occorre saper ascoltare in silenzio.
Curve, tornanti, rettilinei, buche, dossi, vicoli, stradine, esprimono la geoantropica di questo villaggio, con il quale devi fare i conti. Passando da qui, vedendo e toccando, ci sono tanti insegnamenti, ce ne sono tanti di luoghi simili, e quando entri sembra non contare nulla, dove i sogni spariscono, cresce la rassegnazione, e quando vorresti dare un’altra piega alla vita, comprendi che deve rimane così, che non è una perdita di tempo, ma considerare che c’è tanta strada da fare.
Un giorno incontro sempre questo bambino, in chiesa, gli chiedo perché mette i soldi nel candeliere, consigliandogli di comprarsi le caramelle, e lui mi risponde che “i soldi vanno alla Madonna e che la chiesa è consacrata”. Non è l’unico, quando nella giornata dedicata alla marcia della pace, un ragazzino, davanti a tanti adulti e ad altri suoi coetanei, offre una lezione di storia e di socialità, facendo rimanere tutti a bocca aperta. Sono persuaso che questi piccoli semi, possono diventare alberi, profezie e originalità di cambiamento, anche in questo piccolo mondo impastato di dolore e di gioia, può partorire un cammino nuovo.
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