Don, i giovani?
«Sono rari nelle nostre comunità. Non ci sono le famiglie purtroppo. Essi non hanno più interesse per il discorso di fede oppure siamo noi a non essere accoglienti, innamorati. Il confronto con la società non lo reggono, tra pregiudizi e altri obiettivi. Rappresentano la spina dorsale della comunità e il nervo scoperto. Abbiamo fatto poco, e poi, diciamo la verità, li strumentalizziamo: quando ci servono li cerchiamo, per fare le adunate. Penso che dovremmo farli interrogare, e far vedere un’alternativa e la differenza cristiana».
E le famiglie?
«È risaputo che sono in difficoltà. Sono fragili. Separazioni, divorzi, convivenze. Dobbiamo esprimere vicinanza, senza giudicare, presentare il matrimonio non come un ideale, tuttavia è un percorso di santificazione e di santità. Purtroppo siamo indietro, anche nell’accompagnamento e nella preparazione ai fidanzati, ma anche alle coppie in difficoltà».
I poveri, i più fragili, gli ammalati …
«Tutta la comunità deve sentirsi interpellata. Ovviamente nei più fragili vediamo l’immagine del Cristo sofferente. Loro sono una risorsa, non possiamo stare lontani. La cura verso il più debole è il segno della maturità di una comunità che ha compreso cosa ci chiede il vangelo. Mi diceva il mio parroco che “la vera processione del ss. Sacramento è quando andiamo a portare il viatico agli ammalati».
Il ruolo della preghiera per un prete?
«Un prete, un religioso, ma anche un semplice cristiano, devono essere un pozzo per tanta gente assetata. Il prete deve e non dovrebbe essere, un maestro di preghiera. Che bello entrare in una chiesa e sentire il profumo della preghiera. Il prete è l’uomo profondo, attento alla realtà e attento all’interiorità».
Quali sono gli aspetti sociali più urgenti? I passi avanti della chiesa nella legalità?
«La chiesa sovente sostituisce la presenza dello Stato, ha un ruolo importante, ma a volte è entrata in alcune realtà lasciandosi corrompere. La missione della chiesa non può essere compromessa da affari mondani, e sappiamo come ha detto tempo fa papa Francesco, “il diavolo entra attraverso le tasche”, trascurando le priorità. Sì, la chiesa si interessa di tutto l’uomo, ma se non è di esempio, finisce con il tradire il vangelo».
Don sei stanco? Ti ho stressato con tutte queste domande?
«Stai sereno, puoi proseguire».
Hai degli hobby?
«Mi piace fare radio, scrivere, mi piace lo sport, preferisco la piscina, lo jumping rope. Cerco di mantenermi in forma, quando trovo il tempo».
La presenza del male offusca il bene che si fa. Perché tante ingiustizie?
«Nel mondo sono presenti tante disuguaglianze, economiche, sociali, culturali, che provocano conflitti, anche nelle realtà locali e nei piccoli gruppi. La pace parte da sé stessi e dalle proprie famiglie. Diceva don Mazzolari che “il cristiano è un uomo di pace e non un uomo in pace”. C’è tanto dolore e sofferenza, lo vediamo sui giornali e nei telegiornali, e bisogna elevare un grido di preghiera a Dio. C’è un egoismo sfrenato nel mondo e nell’uomo. Gli idoli più seguiti sono il potere e il denaro, fino ad annullare l’umanità. Oggi c’è anche la tecnologia a fare da padrona, ma l’uomo non troverà la felicità se non entra nella profondità del suo cuore e trovare il senso della sua esistenza».
Come vorresti la chiesa?
«Un’alternativa, profetica, che disturba i dormienti, gli addormentai, i pigri. Dobbiamo essere più credibili; alla parola va accompagnata la carità, i gesti, i segni, non ostentare e farsi pubblicità. La chiesa deve non offrire risposte, ma interrogare, ripeto, suscitare domande sul senso del vangelo, sulla vita di Gesù, la forza della preghiera, il senso del dolore del mondo; deve disturbare, ma deve essere di esempio. Qualche giorno fa, parlando con una monaca di clausura, riflettevamo sul fatto che “noi dobbiamo disturbare il mondo”. Lo facciamo? Oppure siamo comodi, ci siamo adeguati, lasciamo tutto scorrere? Siamo poveri? Siamo sobri? Oppure siamo festaioli? Forse ci siamo imborghesiti e la gente ha colto che non siamo differenti dagli altri. Sovente nella chiesa si pensa al carrierismo, al potere, si è una casta, e così ci si allontana dal vangelo».
Sei pentito della scelta di farti prete?
«Ogni giorno mi stupisco di questo dono. Sì, è un dono, scopro di essere fragile, sento che sono tante le difficoltà, e dopo l’entusiasmo degli inizi, i primi anni di sacerdozio, cambiano alcune cose, soprattutto quando vedi che la chiesa non è come te l’aspettavi. Io ho offerto la mia vita a Dio per mezzo della chiesa, vivo questa offerta come rendimento di grazie, è un mistero, occorre viverlo nella gioia, e nella consapevolezza che tutto viene da Dio, “la forza nella debolezza” dice san Paolo, anche nelle cadute. Prima di essere prete sono un uomo, non mi identifico con il ruolo, non ho un potere, non devo cercare l’applauso delle folle. Un prete anziano che porto nel cuore disse di sé stesso di essere “un alito errante”. Cosa siamo noi? Io mi sforzo di vivere non pensando di cambiare gli altri, ma me stesso, nella coerenza delle scelte, nonostante le cadute e i fallimenti, ma questi, non erano estranei a Gesù che sulla croce ha mostrato il fallimento di Dio, usato poi per la fecondità del seme».
Una domanda a piacere?
«Io non sono un esperto di tutto: mi piace leggere, poi rifletto, mi faccio le mie opinioni personali, sono critico con me stesso. Offro tutto nella preghiera. È un dono la preghiera, ascoltare ,dialogare, stare in silenzio, contemplare, e sentire una presenza. Siamo di passaggio, approfittiamo di questo breve tempe per fare e seminare il bene».
Grazie don di esserti raccontato.
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