Il titolo di martire non è una prerogativa religiosa, compete anche a chi ha offerto la propria vita per una idea, ha lottato per la giustizia, e per una causa comune. Ci sono giornalisti che nell’adempimento del loro dovere sono caduti sul campo di guerra, uccisi barbaramente dal nemico, dalla mafia, dall’indifferenza, per mettere a tacere la parola, ma essi sono immortali. Il boato invece produce un effetto contrario ai malviventi che vogliono fermare la verità, un boomerang, che ha colpito anche la vita di Peppino Impastato (05.01.1948-09.05.1978), nato a Cinisi, in una famiglia mafiosa e che fin da ragazzo non aveva esitato a prendere le distanze dai comportamenti mafiosi del padre.
Attivista della lotta proletaria, comunicatore e umorista, fondatore di Radio Aut e di un programma satirico e dissacrante sulla mafia, ha trovato di fronte il boss Badalamenti, esponente di Cosa nostra, che non ha interrotto la campagna di liberazione dalla mafia e dalla mentalità mafiosa di ogni cittadino onesto. Per sviare le indagini e far passare l’omicidio come attentato terroristico, Peppino fu fatto saltare con il tritolo alla cintura sui binari della linea ferroviaria Palermo-Trapani. La forza e la tenacia della madre, Felicia Bartolotta, fecero riaprire il caso inizialmente archiviato e condannare i mandanti.
Impastato insegna quanto è difficile vivere in contesti di mafia, di combattere il clima di omertà e di impunità, che non per forza occorre essere martire, ma che non si può rinunciare alla libertà e la verità quando le coscienze sono narcotizzate e il clima è opprimente come una cappa che impedisce di vivere.
C’è modo e modo di fare giornalismo, ma quando si sposa una causa, non si può non denunciare, raccontare la verità, scegliere da che parte stare, perché la viltà e la pusillanimità sono solo anno di chi sceglie di stare alla finestra e non esporsi per paura di esporsi e sporcarsi le mani. Il giornalista è come un gallo, sveglia la dignità dell’umanità, dal torpore, provoca il confronto, non è di quelli che fanno parte della casta che asservono un potere e scrivono per i padroni e i potenti di turno. Come Peppino ce ne sono stati tanti altri, solo per ricordarne qualcuno, Pippo Fava, Giancarlo Siani, altri oggi minacciati, che non fanno cronaca e non strumentalizzano argomenti e temi scottanti per un po’ di audience sulle televisioni e sui giornali. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo Peppino del modo di fare giornalismo, di vivere la radio, di fare satira, di combattere la mafia e la mentalità mafiosa, di mettersi dalla parte del più debole, di vivere a testa alta e senza paura. Sapeva di essere ucciso Peppino? Questo non lo so, so che quando un uomo lotta per aver fatto uno scelta, deve continuare a perseverare, e quando è vicino alla fine della sua vita vuole credere che la sua vita ha avuto un senso, un sogno, quella libertà e non la schiavitù ai sistemi e alle correnti partigiane che mettono catene opprimenti alle gambe e alle mani e imbavagliano l’uomo.
Oggi si celebra un anniversario, un martirio, lo stesso giorno e lo stesso anno in cui veniva martirizzato un grande statista italiano, Aldo Moro, ucciso dalle brigate rosse. Queste vite sono accomunate dal martirio, e la storia ancora oggi parla di loro, è un obbligo morale, un dovere civile, se si vogliono porre le fondamenta per la costruzione di una società e di una civiltà che ha come valore primario il rispetto reciproco, quella convivenza tanto aspirata che riconosce l’altro come un tu senza il quale non si può conseguire la meta comune, quella pacifica e gioiosa comunione con i propri simili.
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