In un pomeriggio d’inverno, in mezzo ai vicoli, e graziati da temperature miti, è stata una bella opportunità fare passeggiate curiose e consentite dal tempo gradevole, in un film in bianco e nero nel fascino tra muri fatiscenti e porte sbarrate, passando attraverso l’arco storico dei “vutanti”, una piacevole camminata tra salite e discese, di gradini ripidi di vie e viuzze silenziose, scorgendo qualche residuo di umanità, con i panni stesi, segno tangibile di presenza che ancora c’è vita ma in un silenzio tombale spezzato dai nostri passi e dalle nostre parole che affondano nella storia, tra profumi, odori e voli pindarici, immaginando una vita e quel chiasso che non c’è più.
Il mio accompagnatore, Simone, mi raccontava un po’ di storia, straordinario, trent’anni, quando avrei voluto sentire da un anziano un travaso di memoria, un tuffo nei ricordi, i bambini che giocavano, le urla, le grida, le richieste di aiuto, un bambino che nasce, il lavoratore che rientra stanco la sera, qualche dissidio di vicinato, un grido di dolore nelle case con tanto di commiati, insomma, una vita condivisa, impastata di pane e di sudore, di gioia e di dolore, in quello spazio di relazioni che dava un’anima a questi luoghi.
Oramai tutto viene chiamato “storico” o “antico”, ed è quella modernità che cavalca velocemente espropriando i centri e si allontana dalla cultura dell’incontro, e tutto rimane muto laddove non risiede più nessuno, tra gente che è scappata per migliori fortune, abbandonando memorie e legami con il luogo, e per i pochi rimasti, mantengono in vita piccoli centri che fungono ormai da dormitorio.
Ho sentito i muri di pietra parlare, fessura attraverso cui germoglia un pò di verde, ammirando i piccoli comignoli delle case fumeggiare, ho intravisto la donna che si recava alla fontana per raccogliere un po’ di acqua con la giara e lavare i panni, le comari che approfittavano dell’uscita dalle mura di chiesa per qualche pettegolezzo, ma è stata tutta una mia immaginazione di un passato che non c’è più.
Una volta c’era il calzolaio, il fabbro, l’arrotino, a puticha (bottega), la cantina del vino, l’emporio dove trovavi di tutto, passava il carrettiere che gridava.
Ho iniziato a fotografare pezzi di storia, case piccole e basse, dove si viveva tutti insieme, stretti ma felici, e la “Provvidenza” che il Manzoni ricordava nei suoi Promessi Sposi, non era un problema, perché la solidarietà, la condivisione, erano principi e valori che reggevano e saldavano la società.
Alcuni stanno reiventando con l’apertura di B&B questi borghi storici, colorando di vita piccoli balconi e ingressi di queste case consumate dal tempo. C’è dietro un ovvio interesse economico che rientra nel marketing ma che promuove e valorizza un territorio, sia culturalmente e socialmente, con notevoli benefici e ricadute positive sul luogo.
Le Pro loco, le associazioni culturali, le scolaresche, dovrebbero imparare a frequentare questi vicoli, riabitandoli, fermarsi a chiacchierare con qualche anziano rimasto, lasciarsi raccontare un passato che non c’è più e che ha fondato il presente. Molti nostri centri piccoli sono divenuti roba da museo, ma monumenti importanti dove probabilmente non ci tornerà più nessuno, però potremo ridare vita, un’anima, perché sono luoghi che raccontano storie, generazioni, dinastie, passaggi fondamentali nella vita di un popolo e riaprire con mostre fotografiche, filmati, racconti e musiche dell’epoca, serate all’insegna come ritrovo accompagnati da specialità gastronomiche locali, da qualche sorso di vino e l’assaggio di un pezzo di pane sfornato fresco fresco.
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