Nulla è così scontato quando ogni giorno è sempre un nuovo giorno, e il percorso di vita va ricalcolato, riprogrammato, nella tensione tra l’alba e il tramonto. Desideri, ambizioni, progetti, sogni, vanno tutti riconvertirti, alla luce di qualcosa che è superiore a noi. Io parlerei di una vita espropriata per essere donata, di una vita offerta per una causa grande. Non ho paura quando ogni tanto mi volgo indietro per riflettere sulla mia vita, di confessare che Gesù è passato, ho sentito il rumore dei suoi passi, mi è stato raccontato, ha parlato tramite alcuni suoi testimoni, mediante gli eventi e le circostanze della vita che sono “segni” della sua invisibile e tangibile presenza, nascosta, umile, che da buoni ricercatori e investigatori dobbiamo metterci alla ricerca, anche se è Lui che cerca noi.
Ci sono frasi che rimangono scolpite nel mio cuore: “il tesoro in vasi di creta”, dove la fede, l’umanità, la mia fragilità si fanno sempre più esigenti; “il seme del chicco di grano che deve morire per portare frutto”; “l’aratro di chi invece di voltarsi indietro deve sempre rivolgersi in avanti”; la croce del “buon pastore”, che è necessaria portare per identificarsi a lui; le persecuzioni, le amarezze, le incomprensioni; il “fuoco acceso” e che bisogna sempre attizzare, alimentare, diceva il mio parroco, il compianto padre Alessandro.
Ogni giorno, è l’altare della quotidianità, quello della vita, delle sfide inedite, degli impegni, della fedeltà al ministero, degli incontri, essi divengono celebrazione, liturgia, offerta di vita continua, eucaristia, ed è sempre un ripetere e un rinnovare quel “fate questo in memoria di me”, un ricordare sempre presente, vivo, attuale, uno stare in quel Cenacolo, come i primi apostoli e poi andare in missione, nei luoghi difficili delle relazioni, nelle periferie dell’umanità, una uscita difficile, nell’esporsi alla prossimità, nel condividere con gli altri e per gli altri la fede nel Risorto, quella notizia che brucia da più di duemila anni: il Vivente e il Veniente è venuto per la nostra salvezza, per la nostra libertà, per liberarci, per renderci più umani e figli di Dio.
Non siamo programmati come un computer, il destino è nelle nostre mani, quella libertà che Dio rispetta sempre, ma bussa sempre al nostro cuore. Io mi confronto con quella “porta stretta” del quale parla il vangelo e che il giorno di ordinazione (26.08.2007) Dio ha proclamato alla mia vita, era una Parola proprio per me, era con me, un avvertimento, e una chiara indicazione della via da percorrere e che non esistono strade facili quando si segue il vangelo, e che si possono ricevere umiliazioni terribili, da quelli più vicini, di pari grado, anche da chi veste insegne nobili e gloriose e sulla bocca ha il nome del Dio Altissimo (sic!).
Ricordo quando un giorno andai dal mio compianto e indimenticabile parroco, padre Alessandro, un frate cappuccino molto interessante e gli chiesi che volevo ricevere la cresima, avevo 24 anni, e da lì in poi, non mi sarei mai aspettato, una conversione permanente, dove nulla è scontato, tanto che questo frate dal saio marrone, piccolo, semplice, mi ha accompagnato nelle tappe principali del cammino formativo, e quando ritornavo in parrocchia per le feste, era una gioia, anche perché aveva cambiato la parrocchia in una famiglia: “a presto su questo altare”, il suo augurio!
Sono entrato nel quattordicesimo anno come prete, mi avvicino al mezzo secolo di vita, la mia vita è nelle mani di chi mi ha creato, e sono tante le esperienze, spesso rifletto su quelle passate, guardo il presente, dove è arduo adattarsi, e se da un lato c’è una certa maturità, e si impara ogni giorno, – perché d’altronde seguire il vangelo è una scuola di fede e di umanità -, dall’altro, non si è mai arrivati, e la crisi, i momenti difficili e bui, sono come una grazia, un giudizio, che spingono a valutare il momento di passaggio.
Ricordo che un giorno un vescovo, venne a visitarci al Collegio Capranica e disse: “Dovete amare prima la Chiesa e poi Cristo”. Non capivo questa affermazione, anzi, la respingevo, spesso vediamo una contrapposizione. È difficile amare la Chiesa, ti aspetti tanto da essa, soprattutto da chi ha un ruolo di governo, chi svolge un ministero, c’è quel “marciume” di cui il card. Joseph Ratzinger e poi Benedetto XVI aveva a suo tempo denunciato. Spesso mi accorgo che è più una istituzione, un’organizzazione complessa, che deve mantenere la sua presenza al costo di compromessi, risultando meno umana e più mondana. Io che ci sono dentro, sperimento che la “Sposa di Cristo”, in un mondo che ha perduto il senso di Dio, dove gli uomini e le donne sono smarriti, in cui c’è una maggioranza che non trova più in Dio il senso e il significato per la propria vita, non è più al primo posto tra le occupazioni e i pensieri della gente, e la Chiesa si è adattata alla massa, senza quella qualità e differenza significativa di cui parla Gesù nel vangelo, quel “sale e quel lievito” importante che fa fermentare.
Non voglio dilungarmi in questa mia riflessione, desidero raccontarmi, condividere, riflettere, pensare e pregare, sospeso tra la concretezza e uno slancio di fiducia verso Dio, persuaso, che il suo Spirito, abita in questa misera creatura che sono io, e non mi abbandonerà. Anche io sono parte di quel “piccolo gregge”, una presenza, un puntino luminoso, del quale io sperimento la fragilità, l’insignificanza, che ridimensiona pensieri, idee, e che fa del mio essere uomo e prete, un breve passaggio del quale la cosa più importante sarà quella di essere nel Sacro Cuore di Gesù, fonte e sorgente dell’amore che ogni giorno dà forza e fa andare avanti.
Siamo viandanti che camminano nella notte, siamo sentinelle che scrutano l’aurora. Collochiamo in alto la lanterna della fede, della vita, quella che veglia e vigila, e siamo chiamati a fare attenzione alla Parola, e ogni giorno è un passo verso il Cielo.
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